Aldo Rossi - Autobiografia scientifica

Aldo Rossi AUTOBIOGRAFIA SCIENTIFICA Scritta nel corso di un decennio nella forma intermittente e sinuosa della sequenza di annotazioni, sembra rappresentare, per lo stesso autore, un percorso a ritroso rispetto all’Architettura della città, libro-trattato scritto negli anni sessanta, in cui Aldo Rossi definiva, con rigore “rinascimentale”, i principi della morfologia urbana. In questo libro regnano, invece, in discreto disordine, ricordi di luoghi e cose abbandonate, frammenti di oggetti, emergenze di letture, citazioni di testi e autori amati. Aldo Rossi, ad un certo punto della sua vita, ha cominciato a considerare l’arte come una descrizione delle cose e di noi stessi. Per capire e spiegare l’architettura bisogna ripercorrere le cose o le impressioni e cercare il modo di descriverle. Per lui il riferimento più importante era certamente L’autobiografia scientifica di Max Planck. Planck, nel suo libro, risale alle scoperte della fisica moderna, ritrovando l’impressione che gli fece l’enunciazione del principio di conservazione dell’energia. Questo principio risultò in lui sempre legato alla descrizione fatta dal suo maestro di scuola, in cui un muratore solleva con grande sforzo un blocco di pietra sul tetto di una casa. Plance era colpito dal fatto che il lavoro spesso non va perduto, ma rimane immagazzinato per molti anni, latente nel blocco di pietra, finchè un giorno può capitare che il blocco si stacchi e cada sulla testa di un passante uccidendolo. In ogni artista, secondo lui, il principio della continuazione dell’energia si mescola con la ricerca della felicità: l’uso di ogni materiale deve prevedere la costruzione di un luogo e la sua trasformazione. Nell’Architettura della città Rossi identificava questo problema con il rapporto tra forma e funzione. … Credo sia sempre esistita in me un’attenzione alle forme e alle cose; ma le ho sempre guardate come momento ultimo di un sistema complesso, di un’energia che era visibile solo in questi fatti … Ero ammirato dall’ostinazione dell’Alberti, a Rimini e a Mantova, nel ripetere le forme e gli spazi di Roma, come se non esistesse una storia contemporanea; in realtà egli lavorava scientificamente con il solo materiale possibile e disponibile per un architetto … L’architettura era uno dei modi di sopravvivere che l’umanità aveva ricercato, era un modo di esprimere la sua fondamentale ricerca di felicità. In architettura questa ricerca è legata al materiale e all’energia; senza questa osservazione non si possono comprendere le costruzioni. Il dimensionamento di un tavolo, o di una casa, è molto importante; non, come pensano i funzionalismi, per assolvere una determinata funzione, ma per permettere più funzioni: con gli strumenti architettonici noi favoriamo un evento, indipendentemente dal fatto che esso accada. Col tempo Rossi ha riguardato l’architettura come lo strumento che permette lo svolgersi di una cosa. Questa coscienza gli ha dato con gli anni maggiore interesse per il suo mestiere e negli ultimi progetti ha cercato di porre delle costruzioni che, per così dire, favoriscano un evento. Il suo primo contatto con l’arte figurativa sono stati il Sacro Monte di S. e gli altri Sacri Monti. Era, ed è, attratto dalle fissità e dalla naturalezza, dal classicismo delle architetture e dal naturalismo delle persone e degli oggetti. Rossi probabilmente ama i frammenti; la questione dei frammenti in architettura è molto importante poiché forse solo le distruzioni esprimono completamente un fatto. Egli pensa ad un’unità, o un sistema, fatto solo di frammenti ricomposti. E’ convinto però che il progetto complessivo sia certamente più importante e in ultima analisi più bello. … Una mattina che passavo per il Canal Grande in vaporetto qualcuno mi indicò improvvisamente la colonna del Filerete e il vicolo del Duca e le povere case costruite su quello che doveva essere l’ambizioso palazzo del signore milanese. Osservo sempre questa colonna e il suo basamento, questa colonna che è un principio e una fine. Questo inserto o relitto del tempo, nella sua assoluta purezza formale, mi è sempre parso come un simbolo dell’architettura divorata dalla vita che la circonda. … E’ probabile che io ami i frammenti; così come ho sempre pensato che sia una condizione favorevole incontrare una persona con cui si sono spezzati dei legami; è la confidenza con un frammento di noi stessi. Ma la questione del frammento in architettura è molto importante poiché forse solo le distruzioni esprimono completamente il fatto: fotografie delle città durante la guerra, sezioni di appartamenti, giocattoli rotti. Proseguendo poi nelle note autobiografiche vengono analizzati alcuni progetti, ci si è soffermati per prima cosa sul Cimitero di Modena e sul progetto per una Casa dello studente a Chieti. Il cimitero di Modena, per il suo stesso tema rappresenta forse la liquidazione della giovinezza e l’interesse per la morte. Il secondo progetto è una ricerca di felicità come condizione di maturità. In entrambi i progetti Rossi non ha rinunciato alla forma liturgica dell’architettura, nel senso che non si deve dire molto di più di quello che è stabilito, ma con risultati diversi: il primo progetto è fortemente legato alla conclusione della ricerca sulla forma dei frammenti, il secondo a una condizione di felicità. A metà del 1971, sulla strada di Istanbul, tra Belgrado e Zagabria, Rossi ha avuto un grave incidente d’auto. Forse da quell’incidente è nato il progetto per il cimitero di Modena. … Nel progetto di Modena pensavo sempre alle luci che entrano nel cubo segnando fasce precise nella sezione. La costruzione era una costruzione abbandonata dove la vita si ferma, il lavoro è sospeso. Mi ricordo come questo progetto abbia avuto attacchi feroci che io non comprendevo; erano anche attacchi che si rivolgevano a tutta la mia attività di architetto. Ma quello che più mi colpiva era che i critici riducessero il progetto ad una sorta di esperimento neoilluminista. … Il motto del concorso era “l’azzurro del cielo” e ora vedo questi grandi tetti azzurri di lamiera, cos’ sensibili alle luci del giorno e della sera, e delle stagioni, da sembrare ora di un azzurro profondo ora di un celeste chiarissimo. Le pareti rosa si sovrappongono al laterizio emiliano del vecchio cimitero e anch’esse risentono delle luci così che possono apparire quasi bianche oppure rosa scuro. … Se dovessi rifare questo progetto forse lo farei uguale; forse rifarei uguale ogni mio progetto; ma è anche vero che tutto ciò che è successo è già storia ed è difficile pensare che le cose potessero avvenire in un altro modo. … Vedo in questi giorni del 1979 il primo braccio del cimitero di Modena riempirsi di morti. Dopo molte polemiche esso torna ad essere la grande casa dei morti dove l’architettura è uno sfondo appena percettibile per lo specialista. L’architettura per essere grande deve venire dimenticata o porre solo un’immagine di riferimento che si confonde con i ricordi. Il progetto di Chieti, come già detto, era invece basato sulla felicità: dopo la liquidazione della morte con il progetto di Modena, infatti, Rossi perseguiva una rappresentazione formale della felicità. … Accadeva che pensando alla felicità pensavo alle spiagge sovrapponendo Adriatico e Versilia, Normandia e Texas. Il mare mi sembrava una concentrazione, la capacità di costruire una forma geometrica misteriosa, fatta di ogni ricordo e attesa. … Ho sempre pensato che ridurre l’origine dei materiali a qualche senso positivista costituisse un’alterazione sia della materia che della forma. Ho preso coscienza di questo nel progetto di Chieti e nel disegno molto pubblicato “le cabine dell’Elba”. Le cabine erano un’architettura perfetta, ma anche si allineavano lungo la sabbia e strade bianche in mattine senza tempo e sempre uguali. Posso ammettere che esse rappresentano qui un aspetto particolare della forma e della felicità: la giovinezza. Rossi ha sempre amato e ripreso la tipologia della corte: la corte era una forma di vita nelle case della vecchia Milano e rappresenta la forma delle cascine in campagna. Nelle case di Milano la corte, insieme al ballatoio, era vista dall’autore come una forma di vita fatta di intimità sofferte, di legami, di insofferenze. Nella sua infanzia si sentiva escluso da queste case ed entrava nei cortili con timore e curiosità. Il progetto di architettura si identifica per Rossi con ballatoi sovrapposti, ponti aerei, scale, chiasso e silenzio, che ripete in ogni suo disegno. Quando emergono delle relazioni tra le cose, nascono anche nuovi significati. La costruzione, l’architettura è l’elemento primario su cui si innesta la vita. Rossi crede che, nella vita come in architettura, in ogni ricerca vi è sempre un grado di imprevedibilità. In questo modo l’architetto deve usare i suoi strumenti come se fosse un tecnico. Un altro elemento ha influito l’opera di Aldo Rossi: il teatro. Egli ama particolarmente i teatri vuoti, con poche luci accese, dove le voci ripetono la stessa battuta. Anche nei progetti la ripetizione, lo spostamento di un elemento ci pone sempre davanti a un altro progetto che vorremmo fare. Molto spesso il nostro stato d’animo si riflette nel disordine delle cose. Per rossi l’osservazione delle cose è stata la più importante educazione formale; poi l’osservazione si tramuta in memoria e ritorna sempre su alcuni oggetti e in qualche occasione ne costituisce l’evoluzione. Egli è sempre stato affascinato dai teatri e in particolar modo dal teatro del ‘700 dove ha osservato molto il rapporto tra i palchi come luoghi isolati e lo spazio complessivo del teatro. Nel teatro il tempo non coincide con il tempo misurato dall’orologio e così anche i sentimenti si ripetono ogni sera sul palcoscenico con una puntualità impressionante. Per Rossi il teatro è una passione, la costruzione misurabile e convertibile in misure di un sentimento spesso inafferrabile. … In ogni mia architettura sono sempre stato affascinato dal teatro anche se ho fatto solo due progetti per il teatro: il progetto giovanile del Teatro Paganini a Parma e nel 1978 il progetto per il Teatrino scientifico (successivamente progetterà il Teatro del Mondo (1) a Venezia nel 1979, il Teatro Carlo Felice a Genova nel 1983, e il Teatro-Faro a Toronto nel 1988). Quest’ultimo progetto (il Teatrino scientifico) mi è particolarmente caro, esso è un progetto di affezione. Ho sempre pensato che il termine teatrino fosse più complesso del termine teatro; questo non si riferisce solo alla misura ma al carattere di privato, di singolare, di ripetitivo di quanto il teatro è finzione. … Il progetto è definito nell’ora e nel luogo. … Sul fronte del Teatrino vi è un orologio; dove l’ora non batte il tempo. E’ ferma sulle cinque; le cinque possono essere verso le quattro o anche le mitologiche cinque di Ignacio Sànchez Mejias. E’ certo che il tempo del teatro non coincide con il tempo misurato dagli orologi; anche i sentimenti non hanno tempo e si ripetono ogni sera sul palcoscenico con una puntualità impressionante. Ma l’azione non sarà mai estranea al clima del teatro o teatrino: e tutto questo è riassunto in poche tavole di legno, un palco, luci improvvise e impreviste, gente. Il prestigio del teatro. Negli ultimi progetti seguivo queste analogie sterminate: le case capanna della casa dello studente a Chiedo, i disegni delle cabine dell’Elba erano i pezzi di un sistema che doveva comporsi all’interno del Teatrino scientifico. C’è un progetto a cui però Rossi ha rinunciato da tempo: il “progetto di villa con interno”; esso è forse molto vicino a quello che si può definire come “dimenticare l’architettura”. La villa non ha nulla a che vedere con la piccola casa, indipendentemente dalle dimensioni, e gli antichi ci hanno spiegato tutto questo. In Rossi c’è una ricerca smisurata delle cose; ricerca che è anche ricordo ma è soprattutto l’aspetto sterminatore dell’esperienza che procede imprevista dando e togliendo significato ad ogni progetto, avvenimento, cosa o persona. Così questa villa cresceva nel moltiplicarsi delle stanze e nella rigidità di un percorso rettilineo e diventava ospedale, convento, caserma, il luogo di una incomunicabile e presente vita collettiva. Rossi ha sempre pensato che in ogni azione vi debba essere qualche cosa di coatto. E’ difficile pensare senza qualche ossessione, ed è impossibile creare qualcosa di fantastico senza una base rigida e ripetitiva. Era questo il senso di molti progetti: le cose da fissare sono poche, ma non si debbono sbagliare; esse sono il senso della costruzione. Rossi ammette di aver imparato tardi a comprendere gli interni vittoriani, le mezze luci, una tenda scolorita, l’orrore dello spazio vuoto che deve essere colmato. Probabilmente se oggi dovesse parlare di architettura direbbe che è un “rito” piuttosto che una creatività, perché ne conosce pienamente le amarezze e il conforto. … Il rito ci dà un conforto della continuità, della ripetizione, ci costringe a dimenticanze oblique perché, non potendosi evolvere, ogni cambiamento sarebbe la distruzione. Tra le prime passioni dell’autore in architettura c’è sicuramente Alessandro Antonelli(2). Di lui Rossi ha sempre ammirato la coerenza e la passione per la costruzione verticale. Molte di queste costruzioni cadevano o si reggono su un equilibrio praticamente indicibile; Antonelli portava all’estremo un sistema di costruzione tradizionale, le cupole in laterizio, che fatalmente dovevano essere abbandonate. Egli si opponeva a rompere delle regole antiche quasi non potesse confrontarsi con le tecniche moderne per la loro elementarità. Questa passione per la tecnica è molto importante nei progetti di Rossi, il quartiere Gallaratese a Milano è importante proprio per la semplicità della sua costruzione. Altro personaggio molto importante per Rossi è Adolf Loos; egli aveva fatto una grande scoperta in architettura: l’identificarsi con la cosa attraverso l’osservazione e la descrizione, senza cambiamenti, cedimenti o infine senza passione creativa o con un sentimento raggelato dal tempo. … Il mio libro preferito era certamente quello di Adolf Loos la cui lettura e il cui studio devo a quello che posso anche chiamare il mio maestro, Ernesto N. Rogers. Un altro dei maestri che Rossi segue è senz’alto E. L. Boulleè. Egli afferma di aver scoperto l’architettura delle ombre e della luce, e Rossi scopre che luce e ombra non sono altro che degli aspetti del tempo cronologico, che mostrano l’architettura e ne danno un’immagine breve ,ma allo stesso tempo così lunga. Nella sua formazione architettonica Rossi è sempre stato affascinato anche dai musei, ma lo ha capito solo quando ha notato che ai musei si annoiava. Secondo lui molti musei contemporanei sono delle truffe perché troppe volte tentano di distrarre il visitatore, rendendo l’insieme grazioso. Per capire l’architettura bisogna andare oltre lo stile, non propriamente lo stile architettonico in senso tecnico, ma la presenza che hanno su di noi e sulla storia i grandi edifici. Un argomento molto particolare per Rossi è l’architettura moderna: ha infatti sempre avuto nei suoi confronti un atteggiamento ambiguo. La ha studiata attentamente, soprattutto in rapporto alla città, vedendo recentemente i grandi quartieri operai di Berlino o Francoforte. Ha provato una forte ammirazione per la costruzione di queste nuove città, ma ha sempre rifiutato l’aspetto moralistico e piccolo borghese di questa architettura moderna. Fin dall’inizio dei suoi studi, Rossi ha avuto chiara la sua ammirazione per l’architettura sovietica; amava e si considera tuttora allievo di pochi architetti moderni, principalmente Adolf Loos e Mies van der Rohe. Secondo lui gli architetti che più hanno stabilito un filo di continuità con la loro storia e quindi con la storia dell’uomo. D’altra parte Mies van der Rohe è l’unico che abbia saputo fare delle architetture indipendenti dal tempo. L’unica esperienza nel campo del cinema Rossi l’ha avuta con la Triennale di Milano nel 1973; il film aveva il titolo del più bel saggio di architettura (Ornamento e Delitto) ed era un collage di opere d’architettura e pezzi di film nel tentativo di immettere il discorso dell’architettura nella vita e nello stesso tempo vederlo come sfondo delle vicende dell’uomo. La parte finale del cortometraggio è stata girata nella periferia milanese all’alba. Più avanti nella sua esperienza Rossi apre una pagina importante della sua autobiografia scientifica: l’America. E’ noto che in nessun luogo l’architettura moderna è fallita come negli Stati Uniti. In questo paese le analogie, i riferimenti o le osservazioni hanno prodotto in Rossi una grande voglia creativa e anche un nuovo interesse per l’architettura. Note: (1) brani tratti da “Autobiografia scientifica”: … Cerco di non parlare mai di Venezia anche se vi insegno, e quindi spesso vi vivo, da quasi quindici anni. Ma ora parlo di Venezia perché è l’occasione del mio ultimo progetto: il Teatro galleggiante della Biennale del 1979/80. Amo molto quest’opera e anche di essa potrei dire che esprime un momento di felicità; forse è che tutte le opere, in quanto esprimono un momento del fare, appartengono a quella strana sfera che chiamiamo felicità. … Stando il Teatro sull’acqua si vedeva dalla finestra il passaggio dei vaporetti e delle navi come si fosse su un’altra nave e queste altre navi entrano nell’immagine del teatro costituendo la vera scena fissa e mobile. Nel suo scritto su questa costruzione Manfredo Tafuri ha detto che il faro, ma più propriamente qui visto come casa della luce, è fatto per osservare ma anche per essere osservati. E questa osservazione apparentemente lineare ma ha dato l’interpretazione di molte architetture; tutte le torri erano fatte per osservare ma ancora di più per essere osservate. … Il Teatro mi sembrava in un luogo dove finisce l’architettura e comincia il mondo dell’immaginazione o anche dell’insensato. … Questo mi piaceva soprattutto: l’essere nave e come nave subire i movimenti della laguna. (2) brani tratti da “Scritti scelti sull’architettura e la città”: “L’influenza del romanticismo europeo nell’architettura di Alessandro Antonelli” … Alessandro Antonelli fu il tipico rappresentante della cultura architettonica italiana dell’800. Attraverso un’attività che comprende quasi un secolo di storia piemontese l’Antonelli, educato nella scuola di Brera a Milano, condusse innanzi il disegno neoclassico fino alle sue estreme e logiche conseguenze, senza staccarsi dalla situazione reale e presente della cultura del tempo. Negli ultimi anni della sua attività accettò in maniera più o meno incerta i caratteri di alcune esperienze francesi che in quegli anni maggiormente si cimentavano nell’uso di nuove tecniche costruttive. … Per ben comprendere quale fu il carattere dell’opera sua bisognerà vdere quali furono i motivi storicamente concreti del neoclassicismo torinese di quegli anni: basti ricordare l’importanza di alcune soluzioni dello Juvarra, che poi rimasero come soluzioni tipiche in molte costruzioni piemontesi. … Quello che ci preme sottolineare è il carattere straordinario della città dal punto di vista urbanistico, carattere che risiede essenzialmente nella omogeneità edilizia e nella regolarità del tessuto urbano, dovute alla particolare situazione politica di Torino, capitale del piccolo stato piemontese (e strettamente legata alla politica e alla cultura europea, da qui la ragione per cui il tessuto urbano della città si era conservato e si sviluppa secondo piani precisi resi possibili dalla struttura autocratica e militare dello stato piemontese). … Si assiste alla possibilità di costruire secondo un tipo edilizio riproducibile piuttosto che alla volontà di ideare nuove soluzioni formali. La novità rispetto alle costruzioni degli anni precedenti sta nell’individuare l’organismo adatto al nuovo tipo di cliente e dare a questo organismo una tipologia precisa. E’ questa in parte la ragione per cui l’Antonelli nelle sue numerose costruzioni non si preoccuperà di una ricerca di forma estranea alla cultura neoclassica; poiché tale rinnovamento era a suo giudizio evidentemente poco rilevante nei confronti di un impegno di attuazione col quale venivano accettati e riassunti tutti i portati della più recente tradizione. L’attenzione del progettista era tutta centrata sul problema dell’organismo. Questa considerazione è di grande importanza per due motivi: 1. l’aver risolto il problema dello stile non significa l’aver risolto il problema della forma; 2. nell’ambiente torinese si era di fronte al trionfo di quella razionalità che, sorta con la pratica edilizia del settecento, si era andata poi diffondendo in tutta Europa. A questo punto è illuminante il caso della Mole torinese … in quest’opera di grande impegno monumentale l’impianto dell’edificio nasce direttamente dall’interpretazione del tessuto urbano torinese senza che la preoccupazione dell’ordine monumentale della costruzione conducesse alla lacerazione del tessuto viario. Un’altro aspetto va considerato: quello maggiormente legato alla creazione delle cupole, allo studio della tecnica costruttiva e delle leggi statiche, a quella vocazione per le strutture complesse e ardite che caratterizzò in gran parte l’attività dell’Antonelli. Egli ebbe occasione di osservare in particolare le strutture in ferro dei costruttori francesi e sebbene finì per risolvere in tutt’altro modo, pure qualcosa della loro forma e dei loro motivi ispiratori tradusse nelle sue architetture. L’Antonelli ideò, per il progetto della cupola di San Gaudenzio a Novara (precedente alla Mole), un sistema di archi e pennacchi indipendente dal sistema primitivo ad esso sovrapposto, direttamente appoggiato alle murature verticali della Basilica. … La cuspide antonelliana era formata da una scorza conica di mattoni, coperta da costoloni in granito e lastre di beola. Gli otto costoloni si univano superiormente in un pezzo monolitico, attraversato da un’asta metallica reggente una sfera lucida di granito e la statua del Salvatore. Diversa la storia della Mole: iniziata come tempio israelitico nel 1863, rimase interrotta dal 1869 al 1878. La Mole torinese si presenta come una costruzione del tutto eccezionale nella generale pratica architettonica del tempo: tanto eccezionale da esserle improprio il termine di cupola quanto quello di torre. Questa architettura può essere considerata come l’anello di passaggio tra l’antico e il moderno, punto di superamento della polemica tra classicismo e romanticismo. Dal punto di vista costruttivo non si può considerare innovatrice, in senso stretto, l’opera di Antonelli, poiché quella sua grande maestria costruttiva, forse insuperata nella storia dell’architettura del periodo moderno, è piuttosto il punto di arrivo di una tecnica antichissima che ha i suoi precedenti nelle cupole romane piuttosto che il punto di partenza di una tecnica e di una scienza nuova.